Nell’ala Brasini, prossimi alle Guerre stellari Lucasiane, il Vittoriano accosta due tra i pittori del ‘900 più universalmente e mediaticamente noti, Antonio Laccabue (Ligabue , 100 opere, su interessamento della Fondazione Museo Antonio Ligabue di Gualtieri, fino all’8 gennaio 2017) ed Edward Hopper (60 opere dal Whitney Museum of American Art di New York fino al 12 febbraio 2017), tra loro contemporanei e in tutto apparentemente distanti. I rituali di follia dalle brume della bassa reggiana, trasposti nella ferocia di un bestiario esotico e forse in più feroci autoritratti, da una parte; dall’altra il lucido raziocinio della classe commerciale insediata intorno alla cantieristica di Nyack, un premessa necessaria al disegno, alla luce geometrica e alla solitudine urbana. Angoscia persecutoria, agitazione psicomotoria, disturbi sessuali, violenza senza filtri, opposte a controllo, fermo-immagine, tensione per qualcosa – come fa notare Wim Wenders – che sta per succedere o è già successa e che comunque l’artista ci risparmia.
Tra le citazioni più ricordate che il cinema ha fatto dei dipinti di Hopper, quella in Profondo Rosso è forse la meno raffinata ma anche quella che meglio illustra la situazione. Dario Argento non si limita ad ispirarsi ad un quadro di Hopper come i noir degli anni cinquanta e sessanta; egli semplicemente trasferisce in maniera pedissequa I Nottambuli nella messinscena che fa da sfondo al dialogo tra Gabriele Lavia e David Hemmings, quasi a voler approfittare meglio proprio dell’atmosfera immobile e attediata quanto tesa del quadro (alcuni dei personaggi che si intravedono all’interno del bar sembrano essere dei manichini di scena). Ecco, nella scena successiva, la medium selvaggiamente presa a colpi di mannaia e trafitta dalle schegge di vetro non sfigurerebbe tra le fauci delle bestie ritratte da Ligabue. Aspettiamo che qualcosa accada, e qualcosa accade infine. E sarebbe meglio di no. Tutte le informazioni su http://www.ilvittoriano.com/.
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