Ciò che scrutiamo nell’Appia Antica – intendiamo quale sfondo fotografico e set cinematografico, e prima ancora come quinta pittorica del Grand Tour – pare sempre accompagnarsi al sentimento che essa scardini, come paesaggio di rovine, l’aspettativa ideale e sensoriale che solitamente le persone associano ad un sito archeologico, ma anche ad un’area naturale protetta, qualcosa in rapporto con scavo ed interpretazione, studio e razionalità, ma anche riserva, protezione, in poche parole certezza e confini stabiliti.
Il grande Parco Regionale istituito negli anni ottanta questa sensazione non l’ha mitigata. Gli orizzonti rimangono tali e camminando non si sa quello che si troverà oltre; come dimostrano certi film di Totò, di Pasolini, di Fellini il vagare senza meta non può trovare migliore rappresentazione che tra questi sepolcri e all’ombra di questi pini, proprio perché qui, avendo tante piccole mete, sembra non avere mai fine; la commistione poi tra natura, archeologia, proprietà privata ed abusi edilizi non fa che ravvivare il sentimento di disordine, incertezza, e insieme la speranza che qualcosa di inaspettato possa ancora accadere, prospettiva non indifferente a chi produce immagini.
Anche questo troviamo in Appia Self-Portrait – Il mito dell’Appia nelle fotografie d’Autore, mostra che festeggia il completamento del restauro del Casale di Santa Maria Nova raccogliendo ottanta fotografie, tra foto d’epoca dagli Archivi Alinari, dall’Istituto Luce-Cinecittà, dalla Società Geografica Italiana, dal Gabinetto Fotografico Nazionale, quelle di alcuni dei maggiori fotografi del Novecento (ad esempio Elliott Erwitt, Milton Gendel, il fotografo di moda Pasquale De Antonis) e quelle di grandi fotografi contemporanei (come Ferdinando Scianna, Marco Delogu, Luigi Filetici, Stefano Castellani). In più un video-montaggio di film girati nella zona.
Lascia un commento