Archimede. Arte e scienza dell’invenzione, la prima mostra sullo scienziato siracusano, e tra le prime del genere a Roma, lascia la sensazione che prevale qualora si è indotti a tacere una certa insoddisfazione. Innegabile lo sforzo scientifico e organizzativo dei Musei Capitolini, affiancati dal Museo Galileo Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze e dal Max-Planck Institut für Wissenschaftsgeschichte; si pensi solo alla scelta e raccolta dei reperti. Ma qui si tratta di grattare via i sedimenti incrostati sulla figura di Archimede senza comprometterne la leggibilità a millenni di distanza. Il nome dello scienziato genera automaticamente in tutti una ritmata sequenza di idee e immagini quali ingegno, invenzione, spirito pratico, genio, principio di A., galleggiare, leva con mondo sollevato, eureka, navi bruciate, e persino Walt Disney che, accoppiatolo a Pitagora, ne ha tirato fuori un’entità mista, quintessenza dell’inventore.
C’è l’Archimede riscoperto dai matematici arabi, e quello dei monaci cristiani che, cancellando le sue opere, riciclano la pergamena per farne un breviario. C’è quello rinascimentale valorizzato negli aspetti ingegneristici e leonardeschi, e quello che dialoga a millenni di distanza con Galileo, Torricelli, Newton, Leibnitz, Cantor, fornendo le basi per la nascita della scienza moderna come ancora oggi la conosciamo.
Lo sforzo di realizzare ciò che tutte le mostre tentano di fare, compendiare un’immagine, dare un idea comprensibile a tutti riguardo un insieme articolato e complesso di eventi storici, artistici e sociali, in questo caso sembra fallire.
Un piano del Museo ad illustrare la vita e la società progredita dei Greci di Siracusa nel III secolo a.C., città potentissima, paragonabile a Cartagine, a Roma e ai regni ellenistici, con reperti la gran parte provenienti dal Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi”. Alcune stanze dedicate alle così dette invenzioni, come la Vite di Archimede per il pompaggio dell’acqua d’irrigazione, gli argani, i giochi d’acqua, tutte probabile frutto dell’osservazione e perfezionamento di marchingegni già intuiti da pescatori, marinai e contadini in Egitto, Medioriente, Italia meridionale. Qua e là riproduzioni di macchine da guerra usate contro i romani durante il mitico assedio biennale a Siracusa; infine all’ultimo piano uno spazio didattico dedicato ai principi fisici e matematici, come leva, bilancia, galleggianti, e ad un accenno visuale di alcune dimostrazioni geometriche.
Tutto questo riguarda in minima parte il Greco che era per lo più Matematico, uno dei più grandi. Nessuna disamina sull’ambiente storico, nemmeno ristretta alla comunità scientifica, spiegherebbe da sola il salto intellettuale che porta Einstein alla Relatività; esperimento di Michelson Morley, matematica di Minkowski e di Riemann, necessari ma non risolutivi; figuriamoci la Belle Époque, Prussia e Impero Tedesco.
Così nulla si può collocare in una teca di vetro trasparente che dia l’idea di quanto, al contrario, potremmo conoscere solo al prezzo di una completa immersione nella viscosa filologia degli scritti tramandati. Un’esperienza questa con due implicazioni di carattere intellettuale, religioso (mistico) e fisico insieme: innanzitutto la vertigine abissale del ragionamento dimostrativo in grado di tenere insieme oggetti, concetti ed ambiti lontani tra loro, attraverso una rete articolata di relazioni talmente intensa da smarrire l’attenzione di chiunque; una boscaglia intricata, un labirinto del quale solo per pochi istanti si può tenere a mente l’insieme ed intuire l’uscita. E poi la gioia, il piacere viscerale, all’origine forse della scienza moderna, di riuscire ad ammirare (vedere plasticamente) il vero legame tra mondo fisico e pensiero umano (matematico, geometrico), seguendo il quale con l’uno si riesce a capire e manipolare l’altro e viceversa.
Si badi, Archimede era figlio del tempo. Il suo scopo non era risolvere problemi attinenti la realtà fisica, o anche solo ingegneristici come oggi li intendiamo, ma trovare la soluzione di rompicapo astratti, come a lui la matematica greca precedente li aveva trasmessi. L’orizzonte di quella matematica non era pratico come quello di Egizi e Babilonesi; ad essi bastava contare derrate alimentari, misurare terreni coltivati per determinare tributi, ridisegnare confini dopo le inondazioni. Nell’ambiente di Archimede questa matematica naturalmente continuava ad avere corso al di fuori della riflessione scientifica e della scrittura. Dopo Pitagora e Platone infatti i numeri diventano oggetti mistici, principio di tutto, e le figure geometriche entità perfette tra le quali ricercare rapporti e proporzioni universali e da costruire con la sola riga e il compasso, questi ultimi veri assiomi euclidei anziché strumenti fisici reali.
Ma l’impresa rischia di fallire nel momento in cui qualcuno, forse Ippaso di Metaponto o Crotone, proprio un pitagorico, scopre che esistono grandezze le cui misure sono incommensurabili. Due grandezze, siano linee, aree o volumi, sono comparabili solo se esiste un’unità di misura comune, capace di entrare un numero intero di volte in entrambe: in altre parole il loro rapporto deve essere una frazione con numeri interi. I greci, quando misurano, non giustappongono una riga graduata, cosa oltretutto impossibile nel caso delle linee e superfici curve. Essi ragionano per categorie e leggi universali. Quindi misurano per confronto, rapporto e proporzione tra coppie di entità astratte come le figure geometriche, delle quali almeno una si conosce alla perfezione. Archimede stesso lavora per dimostrare che un segmento di parabola ha un’area pari a quattro terzi del triangolo di eguale altezza in essa iscritto, come pure il cono ha un volume uguale ad un terzo del cilindro in cui è inscritto ecc..
Ippaso dunque, non si sa bene come, scopre che ci sono coppie di grandezze per le quali non esiste una comune unità di misura, ad esempio lato e diagonale di un banalissimo quadrato: per quanto si provi a rimpicciolire segmenti non si riesce a trovarne uno che entri in entrambi un numero computabile di volte, se non a patto di farlo diventare infinitamente piccolo. Un trauma scoprire che esistono delle grandezze che non si possono confrontare se non facendo ricorso al concetto di infinitamente piccolo o infinitamente grande: ecco l’Infinito, la bestia in nessun modo addomesticabile, per la quale le regole usuali non valgono.
Niente paura. Eudosso di Cnido, matematico vissuto nel corso del IV secolo, dopotutto capisce che per domare l’infinito non è necessario prenderlo di petto e guardarlo in faccia, cercando di operare su di esso come si fa con i numeri normali. Non si può mai raggiungerlo, è vero, ma lo si può tenere a bada e dire che, data un grandezza qualsiasi, se ne può trovare sempre una più piccola, o più grande, a seconda dei casi. Fingere, senza andare a guardare di persona, che non esiste limite: si può fare. Archimede porta a termine le sue rigorose dimostrazioni impostandole su questa idea geniale e appoggiandosi all’artificio di lasciare senza replica chi avesse affermato che negare un certo risultato non porti a contraddizioni insanabili (dimostrazione per assurdo).
Ma attenzione, è tutta scena, buona per i destinatari delle sue missive che in certi casi lo scienziato pare non ritenere all’altezza. E’ evidente che questi metodi servono per raggiungere risultati che in realtà già si conoscono per altra via. Come dire: ti dimostro con rigore che una verità non può non essere tale, ma non ti dico come io in realtà ci sono arrivato.
Come ben raccontato nel libro Il Codice perduto di Archimede di Reviel Netz e William Noel (prima ed. 2007), all’inizio del secolo scorso salta fuori, per merito di un filologo danese, un palinsesto medievale (un libro cancellato e riscritto). Sotto le preghiere ricopiate dagli amanuensi affiorano, leggibili in gran parte, alcune opere di Archimede, tra le quali una assolutamente inedita dal titolo Metodo di Archimede sui Teoremi Meccanici, ad Eratostene. Dopo molte traversìe proprio negli ultimi anni il manoscritto è diventato dominio della comunità scientifica. Ebbene pare proprio questa l’opera in cui Archimede rivela il modo con cui raggiunge le verità che poi dimostra rigorosamente e il modo è questo: alle perfette, pure figure geometriche egli attribuisce peso e baricentro, per poterle così piegare alle stesse leggi che ha scoperto essere valide per l’equilibrio di pesi, leve e bilance reali. Siamo già senza fiato di fronte ad un cambio di paradigma che ancora influenza le nostre vite: mondo reale e pensiero possono regolarsi a vicenda. Nell’affrontare questa materia altamente astratta, questo sapere assoluto, Lo sguardo dello scienziato sulla realtà, la pratica tangibile di leve, bilance, argani, sistemi idrostatici, pesi ecc., inaspettatamente risulta essenziale.
E l’Infinito? L’infinito continua a rimanere lì come una condanna. Nel Metodo Archimede pare infatti accorgersi che è lo stesso mondo fisico a nascondere l’insidia; imperfetto e ingannevole esso comunica con la mente dell’uomo altrettanto imperfetta, e lo fa proprio attraverso l’infinito, la pupilla della medusa, il mostro che non si può guardare negli occhi se non al prezzo di rimanere pietrificati. Mentre stabilisce il legame tra la natura e i meccanismi della mente, scopre che l’infinito annidato nella realtà è manovrabile come una leva, rimane operativamente docile al guinzaglio. Di conseguenza anche quello trovato tra gli oggetti astratti deve esserlo. Se riconosciamo che un qualsiasi oggetto che possiamo toccare con le mani, che percepiamo finito, sia il risultato della somma di infinite parti di dimensioni infinitesime poste le une accanto alle altre senza soluzione di continuità, potremo allora senza paura sommare tra loro le infinite sezioni di una figura geometrica quanto si voglia complicata; e dunque qualsiasi norma, rapporto, equivalenza dimostrata per una delle sue parti infinitesime, varrà per tutte le infinite parti unite insieme. Archimede allora si rivela il primo responsabile, per immensa intuizione e senza la certezza dimostrativa che spetterà ai suoi lontani epigoni, del calcolo infinitesimale e quindi di tutta la scienza e tecnologia moderna, anche di quella che ci parla attraverso questo computer.
Provate a mettere tutto questo in un museo.
BIBLIOGRAFIA MINIMA
Il Codice perduto di Archimede – Reviel Netz, William Noel – Bur 2007
Opere di Archimede- a cura di Attilio Frajese – Utet 1974
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