Dai tempi di Egon Schiele e Otto Dix, forse ancora prima da Honoré Daumier, o anche molto dopo con Enrico Baj, figure consuete ma losche, dalle carni molli e dai visi deformi proprio nei tratti più caratteristici, guardano minacciosi dalle tele. Con le dovute differenze e motivazioni, chiedono attenzione sul terrore quotidiano, sui pericoli nascosti tra le pieghe della vita, a volte fatta di sofferenze e guerra ma anche nel suo scorrere piatto e ripetitivo; insidie che gli uomini tendono a custodire sotto forma di incessanti tensioni notturne, fonti di spavento senza preavviso e senza spiegazione. Oppure più semplicemente intendono sconfessare le pose da attori consumati che le persone assumono, quando si attengono delle regole dello stare in società.
Le Malelingue è la mostra personale che Domenico Ventura ha allestito a Casa Vuota fino al 21 luglio, naturalmente visitabile, come da sempre succede nell’appartamento galleria di via Maia, su appuntamento. Il pittore gallerista, nato nel 1942, a svelare la minaccia pare esserci arrivato radiografando con ossessione convinta per decenni la sua Altamura e osservando il grottesco, la smisurata finzione della vita di paese. Le malelingue sono signore col vestito buono che, gustando un gelato, appunto si scambiano pettegolezzi, e in quel sussurro che le deforma trovano un senso.
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