Per dare la cifra della Roma deserta per pandemia, Jason Horowitz, capo dell’ufficio romano del New York Times, la prende alla lontana, citando i capisaldi storici della città in fatto di epidemie, saccheggi, e popolazione decimata. Il suo articolo (corredato dalle bellissime foto di Nadia Shira Cohen) è una summa delle disgrazie, un’enciclopedia dei disastri, dalla città vuota dopo il saccheggio di Totila (546 d.C.), fino all’occupazione nazista, senza dimenticare gli invasori Galli, Visigoti, Normanni, Lanzichenecchi, i francesi che bombardarono il Gianicolo, e i papi corrotti. Poi le epidemie, il morbillo, il tifo, la malaria, la sifilide.
Da questa secolare abitudine agli alterni scossoni della fortuna, l’insicurezza, il fatalismo endemico, l’orizzonte precario dei romani, quindi la loro attitudine alla ribellione, alla irriverente allergia per gli editti, ad una considerazione disincantata e un po’ cinica delle regole. La domanda è: cosa rimarrà di questa atavica propensione, di questo carattere nazionale, nel momento in cui, per convivere con il virus, la disciplina e il rispetto meticoloso dei decreti ministeriali saranno tutto?
Il traffico azzerato, L’aria limpida, il profumo dei glicini laddove mai ce lo si sarebbe aspettato, e i romani chiusi in casa contro la loro stessa natura. Basta però osservare meglio qua e là. Un autobus vuoto tampona l’unico scooter in strada, un negozio semiaperto a Pasqua vende uova di cioccolato illegalmente, degli operai evitano di dipingere le strisce pedonali sotto una Smart parcheggiata, le famiglie in maniera impercettibile ma inesorabile abbandonano i terrazzi condominiali e si riversano per le strade; alle prime concessioni di apertura del governo ciascuno si prova in una personale esegesi, parola per parola, su quanto i decreti consentano o meno. Qualche crepa incomincia ad aprirsi, il disordine preme, l’anima autentica scalpita, “There is an undercurrent of a city about to burst”.