Ultimi giorni (chiusura il 12 gennaio 2020) per non perdere, e non si può perdere, la retrospettiva che il Maxxi dedica a Marina Lai. Tenendo per mano il sole riassume la storia lunghissima, durata quasi cento anni, di un’artista inconfondibile in ogni sua manifestazione: Telai, Libri, Fiabe e Geografie ricamate, sino alle performances collettive tra esperimento sociale e cosmogonia, sempre con filo e cucito, alcune volte con la ri-cucitura, quali segni dominanti.
Tre cose Marina Lai ha avuta dalla sua parte. La prima è la Sardegna. Certo come luogo geografico di nascita e come tradizione, ma in particolar modo come miniera di “differenza”, universo che, una volta lasciato, si distingue più nitidamente dagli altri mondi, e in quanto tale esige dall’immaginazione un sforzo supplementare di riconquista, di riappropriazione.
Poi il coraggio, quello di una donna che ha saputo sfuggire al suo destino di donna, sposa e madre, per lei segnato dalla società patriarcale; un forza intima che però possiamo attribuire alla distanza, alla forte cesura che la Sardegna esige dai suoi figli ai quali capiti l’opportunità di allontanarsene non solo fisicamente. L’artista, senza bisogno di aeromobili o droni, nel 1981 diventa capace di sorvolare la sua Ulassai superando il taboo di rendere chiaro ai concittadini, ormai succubi di lei, il legame stretto tra il mito e modi di essere, compresi i quotidiani fossati di incomprensione che fra loro avevano scavato (performance Legarsi alla Montagna).
Infine la manualità. La manualità, gabbia e simbolo di subordinazione millenaria per le donne sarde, come ovunque, che diventa libero esercizio d’immaginazione nel bambino. E con la manualità l’infanzia appunto, conquista posteriore a quella propria dell’anagrafe, unico perimetro nel quale chiunque senza sforzo riesce a guadagnare l’intima certezza di trovarsi sempre nel tempo e nel luogo appropriato, per fare le cose della fantasia e del gioco senza giudizio che tenga.