Su dodici grandi schermi disposti ad arte L’attrice australiana Cate Blanchett interpreta dodici personaggi diversi in dodici situazioni tipiche (un senzatetto, una broker, l’operaia di un impianto di incenerimento dei rifiuti, una CEO, una punk, una scienziata, l’oratrice a un funerale, una burattinaia, la madre di una famiglia conservatrice, una coreografa, una giornalista televisiva e un’insegnante); dodici piccoli film di circa dieci minuti, più un filmato d’introduzione, indistinguibili per qualità visiva e intensità narrativa da spezzoni di lungometraggi, se non per il fatto che i testi recitati sono collage tratti dai manifesti artistici e politici del secolo scorso o iconici aforismi di singole personalità sulla funzione dell’arte. I manifesti di futuristi, dadaisti, Fluxus, suprematisti, situazionisti, Dogma 95 e le dichiarazioni di Umberto Boccioni, Antonio Sant’Elia, Lucio Fontana, Claes Oldenburg, Yvonne Rainer, Kazimir Malevich, André Breton, Elaine Sturtevant, Sol LeWitt, Jim Jarmusch, Guy Debord, Adrian Piper, John Cage.
La domanda è: Le idee a suo tempo proposte in un documento ufficiale da movimenti ed artisti che hanno creduto l’arte capace di cambiare il mondo, conservano la loro carica rivoluzionaria se calate in modo straniante in alcuni contesti reali di oggi, anche ammettendo abbiano retto in quelli del loro tempo? Questo l’intento provocatorio dell’istallazione Manifesto di Julian Rosefeldt, al Palazzo delle Esposizioni fino al 22 aprile 2019.
Come però in molte delle sue opere precedenti, l’artista tedesco, più che intersecare le idee, anche quelle epocali, con la realtà mutevole nel tempo e nello spazio, conduce da sempre una ricerca sulla rappresentazione virtuale del loro successo o del loro fallimento. In particolare con i mezzi del cinema, e proprio il cinema più ricco. In questo caso con la scelta di una star hollywoodiana, ma, in generale, anche nelle sue precedenti produzioni, con il perseverare lungo una certa linea stilistica – Vi sono tracce di grandi inventori di immagini come Kubrik, Antonioni, Herzog, Wenders, via via fino ad epigoni come Villeneuve, Iñárritu, Cuarón, Paul Thomas Anderson, Wes Anderson, e forse pure, per il gusto bozzettistico, dello svedese Roy Andersson -, nobilissima certo, ma ormai diventata mainstream, ad esempio nelle serie televisive, digerita dal mercato come tutto il resto.[Continua]