Nonostante l’origine del termine Pop da popular, la Pop Art ha raggiunto vette di raffinatezza impensate; più di ogni altra corrente artistica infatti si è insinuata nella piega, nel ricciolo incommensurabile che separa l’immagine dalla realtà. Se quella americana parte dal presupposto che l’operazione estetica può emancipare la vita degli uomini dando senso di paradigma alla banalità di immagini e oggetti industriali riproducibili e infinitamente riprodotte dalla pubblicità e dal cinema, uguali per tutti, di conferire valore di significato al nostro vagare tra esse, quella europea ed italiana invece, anche cercando materiali alternativi (primo passo verso l’Arte Povera), arriva tra gli anni ’50 e ’60 a restituire le stesse immagini sotto forma di opere intese come oggetti fisici, oggetti tra gli altri, e tenta così di togliere loro l’aura mitologica per la quale potevano dirsi “arte” nell’accezione accettata da millenni.
Una prova ne è Cesare Tacchi. Una retrospettiva, al Palazzo delle Esposizioni fino al 6 maggio 2018, excursus cronologico sull’opera dell’artista romano morto nel 2014. Pedissequamente la mostra percorre attraverso più di cento opere tutta la sua storia artistica; la sperimentazione di materiali e i dettagli di paesaggio urbano dipinti in smalto a colore pieno; i quadri imbottiti di metà anni ’60, fatti di stoffe e tappezzeria che escono dalla superficie del quadro, dipinti ancora a smalto con figure e sagome di amici o di famose opera d’arte del passato; poi le opere-oggetto e le performance sulla cancellazione dell’artista dei decenni successivi, fino le textures degli anni 2000 che richiamano nostalgiche gli anni ’60. Ma proprio nella produzione degli anni sessanta, nei quadri da tappezzeria morbidamente “estroflessi”, che sporgono dalla parete e invadono il nostro spazio di spettatori, Tacchi compie il suo gesto più originale. Mario Diacono meglio di tutti lo dice:
Ecco perciò Tacchi dare alle immagini lo spessore fisico di cose, facendole uscire dal loro apartheid mitico; esse mettono allora piede in uno spazio che non è più soltanto il loro ma in qualche modo partecipa del nostro e iniziano con noi la conversazione che porta a un limite di enorme evidenza il loro carattere di ri-creature collaboranti alla fisicità del mondo
Lascia un commento