SETE
Bussa alla porta e non posso aprire. Uno, due, tre colpi e poi ancora uno, due e tre. Chi bussa è questo rumore.
Dentro, il malato bruciava di tale arsura da non tollerare neppure il contatto di vesti o tessuti per quanto leggeri, o di veli: solo nudo poteva resistere. Il loro più grande sollievo era di poter gettarsi nell’acqua fredda. E non pochi vi riuscirono, eludendo la sorveglianza dei loro familiari e lanciandosi nei pozzi, in preda a una sete insaziabile. Ma il bere misurato o abbondante produceva il medesimo effetto. Senza pause li tormentava l’insonnia e l’impossibilità assoluta di riposare. Le energie fisiche non si andavano spegnendo, nel periodo in cui la virulenza del male toccava l’acme, ma rivelavano di poter resistere in modo inaspettato e incredibile ai patimenti: sicché in molti casi la morte sopraggiungeva al nono e al settimo giorno, per effetto dell’interna arsura, mentre il malato era ancora discretamente in forze. Se invece superava la fase critica, il male s’estendeva aggredendo gli intestini, al cui interno si produceva una ulcerazione disastrosa accompagnata da una violenta diarrea: ne conseguiva una spossatezza, un esaurimento molte volte mortali. La malattia, circoscritta dapprima in alto, alla testa, si ampliava in seguito percorrendo tutto il corpo, e se si usciva vivi dagli stadi più acuti, il suo marchio restava, a denunciarne il passaggio, almeno alle estremità. Ne rimanevano intaccati i genitali, e le punte dei piedi e delle mani: molti, sopravvivendo al male, perdevano la facoltà di usare questi organi alcuni restavano privi anche degli occhi. Vi fu anche chi riacquistata appena la salute, fu colto da un oblio così profondo e completo da non conservare nemmeno la coscienza di se stesso e da ignorare i suoi cari.
TUCIDIDE – La Guerra del Peloponneso – Garzanti, trad. Ezio Savino
LA POLITICA NON AIUTA
Nulla che non provenga dal desiderio. Niente al di fuori della volontà.
Ci fu poi una pestilenza, la più grande di cui io sia a conoscenza: in un solo giorno a Roma morirono una dopo l’altra duemila persone. Molti altri, invece, morirono per mano di uomini malvagi non solo in città, ma praticamente in tutto l’impero: costoro, infatti, intrisi piccoli aghi in micidiali veleni, se ne servivano, su compenso, per avvelenare altre persone. Questo stesso maleficio era stato praticato anche ai tempi di Domiziano. Mentre tutti costoro morivano nell’indifferenza generale, Commodo si rivelava per i Romani più funesto di qualsiasi pestilenza e di ogni sciagura, tra l’altro anche perché quegli onori che erano stati votati in onore di suo padre per gratitudine dovevano essere attribuiti per imposizione anche a lui, a causa della paura.
CASSIO DIONE – Storia Romana (Libri LXVIII-LXXIII) – Bur Rizzoli, trad. Alessandro Stroppa
THE OTHERS
Durante la notte un cappio al collo stringe. E’ tutta la vita del giorno seguente.
Quell’anno scoppiò una pestilenza da cui poco mancò che andasse distrutto l’intero genere umano. Di solito, a tutti i flagelli mandati dal cielo gli uomini cercano di dare delle spiegazioni, con molta presunzione: tali sono le varie ipotesi che con vani sproloqui amano avanzare coloro che si dicono esperti in materia, su fenomeni assolutamente incomprensibili per l’uomo, inventando strane teorie di scienza naturale, sebbene sappiano di dire cose senza alcun senso; però si considerano paghi se riescono a convincere chi capita loro a tiro, sbalordendo con gran discorsi. Ma per questa pestilenza non c’è alcuna possibilità di esprimere a parole o anche solo immaginare col pensiero una qualche spiegazione: resta comunque da attribuire al volere di Dio.
Cominciando sempre dalle regioni costiere, questo contagio poi di là s’introduceva nell’entroterra. Il secondo anno, a metà della primavera arrivò pure a Bisanzio, dove anch’io mi trovavo in quel periodo di tempo. Molti cittadini cominciarono coll’avere delle apparizioni di fantasmi, del tutto simili a uomini nell’aspetto: e quando si imbattevano in essi, sembrava loro di venir colpiti, in qualche parte del corpo, dall’uomo in cui si erano imbattuti; subito dopo aver avuto tale apparizione, venivano colti dalla pestilenza. Da principio, chi vedeva i fantasmi cercava di cacciarli facendo scongiuri, come meglio poteva, ma senza ottenere assolutamente alcun risultato, tant’è vere che molti morirono persino nelle chiese in cui si erano rifugiati. Più tardi, per lo più rifiuta persino di ricevere gli amici che venivano a fagli visita e si chiudeva nella propria stanza, fingendo di non sentire se qualcuno bussava alla porta, evidentemente perché temeva che a chiamarlo fosse uno di quei fantasmi. Per altri, però, la peste non sopravveniva in questo modo, bensì avevano delle visioni durante il sonno e sembrava loro di subire gli stessi colpi da parte del fantasma sognato, o di udire una voce che annunciava loro ch’erano già iscritti nell’elenco dei morti.
PROCOPIO DI CESAREA – Le Guerre Persiana Vandalica Gotica – Millenni Einaudi a cura di Marcello Craveri
FULCI
Aprimmo la bara e il legno tarlato fu un tonfo di polvere. Pizzi e tulle erano intatti, solo un poco intrisi. Avevo assistito mille altre volte. Quella volta però mi prese lo stomaco, quasi che la mummia vestita da sposa fosse sul punto di ergersi e lamentare l’abbandono.
La mortalità cominciò in Siena di magio, la quale fu oribile e crudel cosa, e non so da qual lato cominciare la crudeltà che era e modi dispiatati, che quasi a ognuno pareva di dolore a vedere si diventavano stupefatti; e non è possibile a lingua umana a contare la oribile cosa, che ben si può dire beato a chi tanta oribilità non vidde. E morivano quasi di subito, e infiavano sotto il ditello e l’anguinaia e favellando cadevano morti. El padre abbandonava el figliuolo, la moglie el marito, e l’uno fratello l’altro: e gnuno fugiva e abandonava l’uno, inperochè questo morbo s’attachava coll’alito e co’ la vista pareva, e così morivano e non si trovava chi soppellisse né per denaro né per amicitia, e quelli de la casa propria li portava meglio che potea a la fossa senza prete, né uffitio alcuno, né si sonava la campana; e in molti luoghi in Siena si fe’ grandi fosse e cupe per la moltitudine dei morti, e morivano a centinaia il dì e la notte, e ognuno [si] gittava in quelle fosse e cuprivano a suolo a suolo, e così tanto che s’empivano le dette fosse, e poi facevano più fosse.
E io Agnolo di Tura, detto il Grasso, sotterrai 5 miei figliuoli co’ le mie mani; e anco furo quelli che furono sì malcuperti di terra, che li cani ne trainavano e mangiavano di molti corpi, per la città; e non era alcuno che piangesse alcuno morto, inperchè ognuno aspettava la morte; e morivane tanti, che ognuno credea che fusse finemondo, e non vale né medicina né altro riparo; e quanti ripari si facea parea che più presto morissero.
AGNOLO DI TURA DEL GRASSO – Cronaca senese, detta la Cronaca maggiore – Da Rerum italicorum scriptores : raccolta degli storici italiani dal cinquecento al millecinquecento ordinata da L. A. Muratori
FAKE NEWS
Incrociando un passante, dopo il primo ed unico sguardo cambio direzione e in fretta mi allontano. Tengo alla mia immagine, la prima.
Avemmo da mercatanti genovesi, uomini degni di fede, che aveano avute novelle di que’ paesi, che alquanto tempo innanzi a questa pestilenzia, nelle parti dell’ Asia superiore uscì della terra, ovvero cadde dal cielo un fuoco grandissimo, il quale stendendosi verso il ponente, arse e consumò grandissimo paese senza alcuno riparo. E alquanti dissono, che del pozzo di questo fuoco si generò la materia corruttibile della generale pestilenzia: ma questo non possiamo accertare. Appresso sapemmo da uno venerabile frate minore di Firenze vescovo di . . . del Regno, uomo degno di fede, che s’era trovato in quelle parti dov’è la città di Lamech ne’ tempi della mortalità, che tre dì e tre notti piowono in quello paese biscie con sangue che appuzzarono e corruppono tutte le contrade: e in quella tempesta fu abbattuto parte del tempio di Maometto, e alquanto della sua sepoltura.
MATTEO VILLANI – Cronica – Da Croniche di Giovanni, Matteo e Filippo Villani secondo le migliori stampe, Volume 2
TARTARI
Il pericolo, senza ora e provenienza, è paralisi.
Nel 1918 il mondo era in guerra, e molti governi avevano un incentivo – un incentivo ulteriore, diciamo – a incolpare i paesi vicini di una malattia tanto devastante. Per questo le furono date decine di nomi diversi.
In maggio l’influenza raggiunse la Spagna e la maggior parte degli spagnoli pensò che fosse arrivata da fuori. Avevano ragione. Era in America già da due mesi, e in Francia da qualche settimana almeno. Ma gli spagnoli non sapevano che nei paesi belligeranti le notizie relative all’influenza erano sottoposte a censura per non demoralizzare la popolazione (i medici dell’esercito francese vi si riferivano in modo criptico come maladie onze, malattia undici).Il 29 giugno l’ispettore generale della Sanità Martín Salazar annunciò all’accademia reale di Medicina di Madrid di non avere ricevuto notizie della presenza della stessa malattia nel resto d’Europa. Quindi chi potevano incolpare gli spagnoli? La risposta la fornì una canzone popolare. In quel periodo lo spettacolo più famoso nella capitale era La canción del olvido (La canzone dell’oblio), una zarzuela basata sulla leggenda di Don Giovanni che conteneva una canzonetta orecchiabile dal titolo Il soldato napoletano. I madrileni soprannominarono subito così la malattia.
La Spagna era un paese neutrale e la stampa non subiva alcuna censura. I giornali riportarono puntualmente il caos provocato dal passaggio del «soldato napoletano», e le notizie dei disagi raggiunsero i paesi stranieri. All’inizio di giugno i parigini, ignari dell’impatto devastante dell’influenza nelle trincee delle Fiandre e delle Ardenne, appresero che due terzi dei madrileni si erano ammalati nel giro di tre giorni. Francesi, inglesi e americani, ignorando che la malattia era nei loro paesi da molto più tempo, e con la complicità dei loro governi, cominciarono a chiamarla «influenza spagnola».
LAURA SPINNEY– 1918 l’influenza spagnola, la pandemia che cambiò il mondo – Marsilio, trad. Anita Taroni e Stefano Travagli
GOURMET
Brani da DAVID QUAMMEN – Spillover, L’evoluzione delle pandemie – Adelphi trad. Luigi Civalleri
Un pubblico ufficiale disse a Greenfeld che nella sola città di Canton si contavano duemila ristoranti con animali selvatici in menù. Nel corso di un’ora, quanto durò la loro conversazione, altri quattro locali ottennero l’apposita licenza.
Questi posti si riforniscono nei cosiddetti wet markets del Guangdong, enormi mercati dove si vendono grandi quantità di animali vivi, come ad esempio il Chatou di Canton e il Dongmen di Shenzhen. Ma anche se questi animali arrivavano dagli allevamenti robusti e in buona salute, i mercati erano luoghi tutt’altro che salubri. « Gli esemplari sono rinchiusi in spazi angusti, spesso a stretto contatto con altre specie selvatiche e domestiche, come gatti e cani » scrivono i ricercatori. « Molti sembrano malati, presentano ferite aperte e non sono oggetto delle minime cure. Sovente la macellazione si effettua sul posto, in luoghi appositamente designati ». L’uso di gabbie a rete, impilate una sull’altra, fa sì che le deiezioni degli animali posti in alto cadano su quelli in basso. Un manicomio zoologico.
Il team di ricerca osserva poi, quasi en passant, che « i mercati forniscono anche un ambiente favorevole alla trasmissione di malattie animali da specie a specie e anche all’uomo »…la civetta delle palme mascherata era stata con ogni probabilità solo l’ospite di amplificazione durante l’epidemia del 2003. Che nessuno sapeva con certezza cosa, nel corso di quell’inverno nel Guangdong, avesse innescato la miccia del contagio, anche se il gruppo di Li avanzava qualche ipotesi (« Il casuale contatto in un mercato tra una partita di pipistrelli infetti e altre specie suscettibili, in grado di diventare ospiti di amplificazione, potrebbe aver causato lo spillover e l’inizio di un ciclo in cui l’infezione non si spegneva per la costante presenza di animali in grado di contagiare » si legge nell’articolo. Un’epidemia dovuta alla promiscuità.
Tra le specie suscettibili potevano esserci non solo la civetta delle palme mascherata, ma anche il cane procione, il tasso furetto o chissà cos’altro: sono tanti gli animali locali che finiscono al mercato per essere venduti e mangiati. Quindi il governo poteva sterminare tutti gli zibetti della Cina senza che tale azione facesse sparire la SARS. La nicchia ecologica di questo virus, con i suoi ostacoli e le sue opportunità, si sovrapponeva a quella di una popolazione umana nei cui mercati poteva arrivare senza problemi « una partita di pipistrelli infetti». Da un lato questa ricerca spingeva i mangioni alla cautela; dall’altro mostrava la necessità di altri studi…
…A Canton per esempio, nel mercato di Chatou, aveva visto cicogne, gabbiani, aironi, gru, cervi, alligatori, coccodrilli, cinghiali, cani procioni, scoiattoli volanti, vari tipi di serpenti, tartarughe e rane, oltre a cani e gatti domestici. Tutti in vendita per la carne.
Mancavano gli zibetti, che erano già stati demonizzati e sterminati. L’elenco era incompleto, mi disse, e comprendeva solo le specie di cui si ricordava a memoria, da lui viste nel corso di caute esplorazioni. In quegli anni si potevano comprare anche gatti leopardo, muntjak (un genere di piccoli cervi), donnole siberiane, tassi, ratti del bambù cinesi, lucertole Leiolepis belliana, rospi, e tutta una lunga lista di rettili, anfibi e mammiferi, tra cui due specie di pipistrelli frugivori. Un menù da Trimalcione. Ah, ovviamente non mancavano gli uccelli: aironi guardabuoi, spatole, cormorani, gazze, un’ampia selezione di anatre e oche, fagiani, colombi, pivieri, gallinelle, folaghe, ghiandaie, corvi di vario tipo… Un collega di Aleksei mi disse che per quanto riguardava uccelli e pipistrelli era valido un noto adagio: « La gente della Cina meridionale mangia tutto quel che vola nel cielo, tranne gli aeroplani ». Lui veniva dal nord.
…Dopo l’epidemia di SARS e la caduta in disgrazia degli zibetti, il governo locale (presumibilmente su pressione di Pechino) aveva dato un giro di vite, emanando nuovi regolamenti che limitavano il commercio di specie selvatiche nei mercati. La moda non era sparita, ma era stata spinta in clandestinità
Big One
…L’entomologo Alan A. Berryman ha affrontato il problema qualche anno fa in un saggio intitolato The Theory and Classification of Outbreaks, dove parte proprio dalle basi: «Dal punto di vista ecologico, un’esplosione [nel senso di epidemia] si può definire come un estremo aumento della numerosità di una determinata specie che avviene in un intervallo temporale relativamente breve». Prosegue poi con lo stesso tono distaccato: « Da questo punto di vista, la più seria esplosione verificatasi sul pianeta Terra è quella della specie Homo sapiens». Qui allude ovviamente, consapevole della provocazione, al tasso di crescita e alla dimensione della popolazione umana, specialmente negli ultimi due secoli. E i numeri gli danno ragione.
…Nel 1987, anno di pubblicazione del saggio, al mondo c’erano cinque miliardi di persone: ci siamo moltiplicati di un fattore 333 dall’invenzione dell’agricoltura, di un fattore 14 dalla fine della pandemia di peste nel Trecento, di un fattore 5 dalla nascita di Darwin, e durante la vita di Alan Berryman ci siamo praticamente raddoppiati. Nel grafico che compare nel saggio, la curva di crescita ha un picco ripido quanto una parete dolomitica. Si può spiegare il concetto anche in un altro modo: dall’epoca della nostra origine come specie, circa duecentomila anni fa, all’anno 1804 la popolazione mondiale è cresciuta fino a raggiungere un miliardo di abitanti. Tra il 1804 e il 1927 è aumentata di un altro miliardo; nel 1960 ha raggiunto i tre miliardi; e da allora è cresciuta di un miliardo ogni tredici anni circa. Nell’ottobre del 2011 eravamo sette milardi, ma anche questo traguardo è volato via, come la scritta « Welcome to Kansas » intravista sull’autostrada. È un fenomeno che risponde sicuramente al requisito di Berryman: una crescita « estrema» in un arco di tempo «relativamente breve». È vero che negli ultimi decenni il tasso di crescita è diminuito, ma è sempre più dell’1 per cento annuo, il che vuol dire circa settanta milioni di persone in più ogni anno.
Quindi siamo davvero un fenomeno unico nella storia dei mammiferi e dei vertebrati in genere. A giudicare dalle testimonianze fossili, nessun altro animale di grandi dimensioni (più grande per esempio di una formica o dei crostacei di un krill antartico) ha mai raggiunto neppur lontanamente la consistenza numerica della popolazione umana odierna. La nostra massa complessiva è pari a 340 miliardi di chilogrammi, meno delle formiche e del krill, vero, ma più di quasi tutti gli altri organismi. E siamo solo una specie di mammiferi, non un gruppo. Siamo grandi, per dimensioni, numerosità e peso complessivo. L’insigne biologo (e grande esperto di formiche) Edward O. Wilson si è sentito in dovere di fare due calcoli: « Quando Homo sapiens ha superato il traguardo dei sette miliardi, la nostra biomassa era già forse cento volte maggiore di quella di qualsiasi altro animale terrestre di grandi dimensioni mai esistito ».
Si riferiva solo agli animali selvatici e non considerava il bestiame, come i bovini da allevamento (Bos taurus), di cui oggi esistono nel mondo circa 1,3 miliardi di capi. Siamo solo cinque volte più numerosi delle nostre mucche (e probabilmente la nostra massa totale è minore, visto che loro sono ben più pesanti di un essere umano). Ma ovviamente questi animali non potrebbero essere così numerosi senza la nostra presenza. Mezzo miliardo di tonnellate di bovini allevati in modo intensivo, che si alimentano su terreni dove un tempo vivevano erbivori selvatici, sono solo un’altra forma di impatto umano sull’ambiente, una manifestazione del nostro appetito. E siamo consumatori affamati, a livelli senza precedenti. Nessun altro primate ha pesato così tanto sul pianeta, neanche lontanamente. In termini ecologici siamo quasi paradossali: animali di grande corporatura e molto longevi, ma assurdamente numerosi. Siamo un’esplosione, come una pandemia.
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