The rhythm of the brain, Jan Fabre, a Palazzo Merulana fino al 9 febbraio 2020. A cura di Achille Bonito Oliva e Melania Rossi, la Fondazione Cerasi ospita il poliedrico artista belga, sulla scena dell’arte e del teatro contemporaneo dalla fine degli anni settanta; quarant’anni di presenza continua, indomita, tellurica, durante i quali, seppure sempre secondo assi immaginifiche ricorrenti, l’artista belga non ha risparmiato nulla agli occhi del pubblico, un pubblico che non se l’è mai cavata stando in disparte a guardare ma che è stato chiamato ad essere complice e a cambiare, mutarsi nell’intimo. Disegni dai propri liquidi corporei (sangue, lacrime, sperma, saliva), sculture rivestite di gusci di scarabei, autoritratti trafitti o deformati da escrescenze e protesi animali, corpi intrappolati in sadiche armature, triviali performance con lancio di gatti vivi, e soprattutto coreografie in cui ballerini e attori sono corpi-marionetta, esposti per ore a fatiche sull’orlo della sevizie e nudità, carnefici di sé stessi e nello stesso tempo vittime immolate all’idea del regista.
A Palazzo Merulana Fabre ritorna con il cervello, uno dei suoi temi cardine, e lo fa interagendo con le opere di De Chirico, Donghi, Capogrossi, Janni, Casorati e Cambellotti, presenti nella collezione. Trenta tra sculture, disegni e istallazioni, il filmato della performance in cui dialoga con il neuropsichiatra Giacomo Rizzolati padre dei neuroni specchio, e una semina di masse cerebrali – scatole nere in equilibrio precario, limite invalicabile tra materia e pensiero – le quali esemplificano la ricerca estrema ed impossibile dell’artista, il confine che egli non riesce a varcare, per quanto senza sosta apra il suo cranio e ne estragga la materia grigia.
Violenza, ferocia, dominio, come se nell’ascolto di Glenn Gould mentre suona Bach risuonasse esclusivamente il fantasma della scure che sorda si abbatte sull’abete rosso servito per costruire il pianoforte. Questo è in ogni caso il cittadino di Anversa, che ha il merito e la colpa di essere stato tra i primi ad aver mostrato quanto l’arte e la ricerca della bellezza, la bellezza oggi così continuamente con fastidiosa retorica evocata, sia infine un sopruso, un esercizio sadico, non metafora o segno ma pratica di dominio, come qualunque altra umana attività.
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