A La Pelanda, area del ex-Mattatoio un tempo luogo della pelatura dei maiali macellati e ora centro di produzione culturale contiguo al Macro, il 7 e l’8 giugno si tiene la prima edizione del Festival del Dire; due giornate dedicate al racconto dal vivo, ideate e curate da Bea, Branded Entertainment & Arts, e cioè Fabrizio Russo, Sofia Klein, e lo scrittore Andrea Ballarini, i quali qui mettono a frutto il loro apprendistato di animatori culturali al BeaCafé, il caffé letterario prossimo alla stazione di Trastevere. A porgere le loro storie una piccola folla variegata che comprende lo scrittore Stefano Benni, i ragazzi del Centro Sperimentale di Cinematografia, la restauratrice Valeria Merlini, i giornalisti e scrittori Claudio Cerasa e Michele Masneri, l’illustratore Filippo Scòzzari, lo scrittore Andrea Villani, l’attore David Riondino, i jazzisti Valeria Rinaldi, Carlo Ficini, Leonardo Cesari, Gino Cardamone e Federica Michisanti, Massimo Cirri e Josè Bagnarelli, lo chef Claudio Dordei, il fotografo Nadir Naldi, l’artista Gea Casolaro, l’esperto di cinema Anton Giulio Onofri, lo scrittore Luca Scarlini, il critico Filippo La Porta, Andrea Granelli e la giornalista Flavia Trupia. Scritto e orale, meditato o improvvisato, antico o personale, il racconto, dopo millenni di scrittura, dopo la psicanalisi, dopo decenni di contorsioni critiche sul testo, riesce ad essere l’unica forma di espressione umana, se non artistica, che si giustifica come tale, al di là e a prescindere dal ogni singolo racconto concreto e dall’esito di esso sul concreto e occasionale uditorio.
Soprattutto negli ultimi anni che hanno visto la letteratura professionale languire per seguito e vendite, il raccontare è stato inteso come apertura universale di sé agli altri, alla comunità: per questo esso è buono, meritorio, auspicabile; esso fa bene, guarisce, salva dalla malattia, dall’indifferenza, dalla povertà e dalla guerra. Un’errore grave questo, addirittura fatale. Qualunque sia lo scopo delle storie, con esse si entra in uno spazio di finzione, pieno di oggetti che solo uno sguardo assopito può percepire attraenti, o quanto meno innocui. chi racconta prende usa e lascia questi oggetti come attrezzi da un tavolo di lavoro.
Con essi egli può giocare autocompiacendosi, ma può anche allestire il proprio funerale. Maneggiandoli può giustificare la propria esistenza collocando sé in un punto preciso dell’universo ma al tempo stesso può ammalarsi per non riuscire a capire la propria morte. http://www.festivalperdire.com/.
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