Gianni Berengo Gardin è stato per tutta la vita, ed è ancora oggi a 89 anni, fotografo e collezionista; ha fotografato di tutto e ha accumulato oggetti tra i più svariati. Si può dire abbia fotografato sempre come collezionasse, con la medesima tesa finalità: l’archivio, il big data ante litteram, la maggiore completezza possibile nello spazio e nel tempo a disposizione, riguardo una categoria di oggetti, una società, un tema, un luogo e un’età vissuti. Modellini di locomotive, libri tecnici sugli aeroplani, figurine Liebig, come immagini di manicomi-lager, baci tra innamorati nella Parigi anni ’50, operai in sciopero. Quando si colleziona, pensava Walter Benjamin, la cosa collezionata viene strappata al suo utilizzo originario per acquisire una funzione alternativa: l’esaustione del suo tema, l’esaurimento di quanto di esso resta da dire. Lo stesso sforzo che si fa nel documentare qualcosa, un azione potenzialmente infinita che va sempre oltre il portare la prova di essa aldilà di ogni ragionevole dubbio. Le foto di Berengo Gardin non rinunciano mai al loro destino di documento, elemento d’archivio, un archivio di un milione e 800 mila scatti in bianco e nero, dagli anni cinquanta ad oggi.
Altri fotografano per svelare, portare alla luce perché s’intuisca qualcosa di nascosto, di non immediatamente percepibile nel soggetto; strappare la maschera, o almeno lasciare balenare l’istante in cui il “vero” mette la maschera, come Emanuele Trevi, in maniera del tutto condivisibile, sembra voglia dire in Sogni e Favole dei ritratti di Arturo Patten, altro grande fotografo, prematuramente scomparso nel 1999. Berengo Gardin no. Le sue 75 foto di Roma (Gianni Berengo Gardin. Roma, fino al 12 gennaio 2020), delle quali 25 inedite, in mostra al Casale di Santa Maria Nova – Parco dell’Appia Antica, sono un documento di Roma, dagli anni ’50 ad oggi; o meglio sono l’archivio dei costumi e delle grandi trasformazioni della società immortalati su uno sfondo fatto di strade e monumenti di Roma.
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