Più di un quarto di nuraghe ogni kilometro quadrato di Sardegna; costruiti a partire dal 1700 a.C., disseminati su tutto il territorio, molti perduti o in via di comparsa, prodotti dalle popolazioni sarde ancora fino alla conquista romana, anche se solo in miniatura come simboli della propria età dell’oro. Più delle piramidi per Egizi e civiltà precolombiane e degli Ziqqurat per le civiltà mesopotamiche, questi pesanti edifici troncoconici identificano i gruppi umani che li hanno innalzati sul paesaggio sardo. Eppure, anche se molti studiosi si sono convinti della loro funzione amministrativa e militare, di dominio, controllo e difesa sui territori e sulle popolazioni circostanti, con certezza nessuno ha stabilito a cosa servissero realmente. Un tronco di cono ne avvolge un altro più piccolo separandosene con un intercapedine, entrambi ottenuti sovrapponendo cerchi sempre meno ampi di massi rozzamente smussati e posati a secco, i superiori leggermente aggettanti rispetto agli inferiori per stringersi infine a formare come tetto una falsa cupola. Nell’intercapedine una massiccia scala a chiocciola per salire ai piani, massimo tre. A terra nella stanza centrale un grossa cavità per stivare derrate.
Inquietante la visita per lo spessore enorme dei muri in rapporto alla esiguità degli spazi vuoti, a volte ridotti a cunicoli. La vastità solitaria e ardente delle distese circostanti, aperte e sconfinate, è perfetto contraltare del senso di soffocamento al fondo del nuraghe; come il terrore per l’assalto e l’invasione lo è dell’inviolabile sicurezza percipita in un ventre di pietra. Per la prima volta a Roma l’oggettistica in bronzo e pietra della civiltà nuragica reperita in Sardegna insieme a quella di importazione, rinvenuta sull’altra sponda del Tirreno.
Al Museo Etrusco di Valle Giulia La Sardegna dei 10.000 nuraghi. Simboli e miti dal Passato
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