Uno Stato Pontificio all’avanguardia l’aveva pensata per collegare Roma a Ceprano e quindi Napoli nel 1860 e con efficienza poco nazionale la apre nel 1863. Il fascismo vuole rendere lo scalo della capitale il più moderno e grande possibile in occasione dell’Esposizione Universale del ’42 a simboleggiare l’impero ritrovato, ma lo scoppio della guerra ferma tutto fino agli anni ’50, quando in mano agli architetti Montuori e Vitellozzi diventa quello che sostanzialmente è oggi, un enorme cuneo nel cuore profondo della città antica, in mezzo a lacerti di mura serviane, quasi a baciare i resti delle colossali Terme di Diocleziano. E da queste Terme che il nome Termini le viene assegnato. Poi, nell’arco di un cinquantennio, la costruzione delle linee metropolitane A e B che fanno della stazione Termini la loro fermata più importante, assegnandole il fondamentale compito di distribuire verso il centro e la periferia quanti arrivano dal resto del mondo, e Termini è d’obbligo il suo nome.
Oggi un Atac in difficoltà e senza liquidità (ma dove vanno la gran quantità di monetine per i biglietti che ogni giorno entrano nelle sue casse?) ha deciso di accettare (con una sperimentazione di tre mesi) da una grande compagnia telefonica un milione di euro l’anno per la sua manutenzione, in cambio accordandole il permesso di sistemare i propri loghi e colori sociali ovunque nella stazione e sui treni, e soprattutto di marcare la medesima apponendo il proprio nome accanto a quello tradizionale.
E’ come far valere le ragioni inesorabilmente concise del commercio accanto e più di quelle profonde della storia e della cultura.
E questo avviene prima che molti tra i tutti che conoscono la società di telefonia mobile siano potuti venire a conoscenza del significato della prima intitolazione, quella di sempre, quando è la nuova che, complice un annoso ininterrotto bombardamento pubblicitario, meno avevano bisogno di ricordare.
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