Negli ultimi 50 anni New York, ombelico e testa della potenza americana, è stato il centro della scena artistica mondiale, non lo si può negare. Luogo della centralità culturale politica ed economica, si è presa anche il vezzo di dettare le immagini, le metafore che fossero capaci di interpretare nel bene e nel male l’America e il mondo, così come quella ha cambiato l’economia, la politica, la cultura di questo. Ma né l’America né il mondo sono gli stessi ed oggi non sappiamo se la New York ferita e rigenerata del 2013 abbia conservate le stesse prerogative, in un pianeta senza centro. Sappiamo che i poteri esistono da qualche parte e che si veicolano con rapidità in canali diversi, e ciononostante vediamo che gli artisti di New York prendere spunto dalle immagini del loro universo visivo, seppure mutato, a volte desolato e infido, per continuare ad esercitare il loro potere di confezionare metafore che ci dicano cosa siamo. “Empire State. Arte a New York oggi“, al Palazzo delle Esposizioni fino al 21 luglio 2013, è un tentativo di capire quanto della nostra esistenza entri ancora nelle loro visioni, e nei loro esiti artistici avvalorati da cerebrali e in molti casi non originalissimi discorsi sul linguaggio, sull’arte, sui media, sulla società.
Prevalenti i tentativi di sovrapporre una patina di reinterpretazione della storia dell’arte universale, come in Jeff Koons, Julian Schnabel, e i feticci smascherati della tecnologia, della merce e dei media come in Robak, il linguaggio e i segni come oggetto d’arte in Antoine Catala, e i miti dei fumetti e del sesso nel mobilio sadomaso di Bjarne Melgaard.
La forza dell’arte in tutti i secoli passati, la sua rivoluzione sta nell’esigua produzione d’immagini. La capacità di produrne poteva condizionare il potere, e il potere ne doveva tenere conto, molte volte appropriandosene. Oggi, la fiumana di pixel che si possono avere o inviare mina la loro stessa efficacia e costringe l’arte a diventarne una mera registrazione dopo averle tolto l’estro di crearne di nuovi e dirompenti; occorre ripensare la funzione di chi fa arte.
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