Venerdì 20 dicembre 2013, alla presenza del ministro dei beni culturali Bray, Luigi Abete, capo e azionista di maggioranza insieme ad Aurelio De Laurentis e Diego della Valle della IEG, la holding che controlla Cinecittà Studios, scoprirà la targa che dedica lo Studio 5 a Federico Fellini che di quel teatro aveva fatto il suo tempio. Chissà se l’occasione sarà propizia per dare soluzione ai problemi di bilancio e alla destinazione d’uso del luogo che ha reso possibile la stagione fondativa del cinema italiano ed internazionale. La rinegoziazione del canone di locazione degli studi che la holding paga allo Stato; l’utilizzo del marchio per la realizzazione del grande parco a tema Cinecittà World sulla Pontina; i famosi 7 milioni di euro che doveva essere spesi dall’anno passato per rilanciare gli studi in quello che dovrebbe rimanere il loro scopo principale: fare film. Lo Stato, non sapendo come far fronte al declino degli stabilimenti, nel 1997 ne affida ai privati (in primis Abete) la gestione con la promessa di investimenti per il rilancio della produzione cinematografica. Promessa avventata.
Le maestranze e le attrezzature tradizionali del cinema ormai si trovano a minor costo altrove, ma anche le produzioni televisive e i reality incominciano ad abbandonare via Tuscolana. Insomma alla lunga i privati, che in tutti questi anni non pare abbiano avuto molta voglia di investire, pensano che sia molto più semplice profittare del prestigio del marchio costruendo un parco divertimenti a tema, e guardano agli spazi degli stabilimenti come area adatta all’ennesima colata di cemento sotto forma di alberghi, centri benessere e parcheggi. La solita storia italiana. La mano pubblica lenta, burocratica, o nella migliore delle ipotesi solo incapace; il privato che vive solo alle spalle del pubblico, a rimorchio della politica, e che non è mai disponibile a fare l’unico mestiere che gli rende dignità: rischiare di tasca propria.
Se si vuole che il cinema guadagni e che diventi un’industria alla pari di quella hollywoodiana, occorrono, e non da oggi, il rinnovamento tecnologico delle competenze e la ricerca dei mercati internazionali; molto meno che nasca un altro Fellini. Gli autori certo; ma sulla base di un processo produttivo a regime, fatto di nuove capacità e conoscenze oltre che di fantasia, che ridia slancio ai generi, oggi soprattutto fantasy, fantascienza e horror, a giudicare da quello che arriva dall’America. Per questo occorrono soldi, i tanti soldi che ci vogliono per attirare il know how e trasmetterlo a nuove generazioni di lavoratori del cinema. Oppure, al posto dei privati, l’Unesco o un Museo alla gloria passata.
Al riguardo una bella inchiesta di Repubblica.it.
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