Per ammirare i capolavori del Museo d’Orsay, ammesso si riesca ad uscire dal Louvre dopo esservi incautamente entrati, bisogna esattamente varcare la soglia del Museo d’Orsay a Parigi, un ex stazione vicino alla Senna. A Roma, fino all’8 giugno 2014, sono esposti alcuni quadri normalmente collocati in quel museo, e di essi si può fare un’esperienza solo indistinta tra le impressioni dettate dal puro transito nel termitaio interno al Vittoriano; Il monumento a Vittorio Emanuele II Equestre e al Milite Ignoto, alla pari di una piramide egizia sovradimensionato fuori, asfittico e claustrofobico dentro, immobile ed eterno come una cappella cimiteriale, è lontano anni luce dalla Gare d’Orsay, architettura aperta e vitale. Questa esperienza può essere personalissima, esiste solo per la sua durata, non ha nessun valore critico o estetico e si può condividere in percentuali insignificanti attraverso le parole. Per puro caso non cala su quei pochi, universalmente considerati capolavori. Oltre al transito questa esperienza ha come tema il bianco, la campitura distesa di colore bianco, terragna o smaltata, aggiunta al pallido vuoto della tela per significare non tanto la luce quanto la luminescenza che origina dal quadro.
In cima alla scalinata il piano si apre indolore con il sermone filmato di Guy Cogeval e con i primi ambienti dedicati alla storia architettonica del Museo d’Orsay. L’ambulacro dedicato all’accademia è sotto il segno della sollecitazione sensuale ma non raggiunge lo scopo. Ne l’amour et la jeunesse (1877) di Bouguereau il bianco è un impercettibile pennellata sui seni e sui fianchi della Gioventù, è marmo inaccettabile sullo sfondo agreste: un nano da giardino.
La seconda stanza converge sulla Lavandaia (1860), un mistero ripreso di spalle da Paul Guigou; non abbiamo le prove ma la bianca ruvida luminescenza che divide ad X la schiena è la stessa del lavatoio e del suolo. Ne concludiamo la figura umana essere assemblata con la stessa materia della terra, dell’aria, della tela: una chiazza dipinta tra le altre.
Imbocchiamo il corridoio a destra. La lezione di catechismo (1890) del lionese Jules-Alexis Muenier presenta come unici elementi realistici le macchie candide alle spalle del prete, bianchi floreali che premono da una dimensione spazio temporale diversa rispetto al resto della scena; questa nel suo insieme ha l’effetto dell’etichetta che ritrae un perfetto tonno in scatola, metafisicamente differente da quello disfatto che si trova all’interno; ha insomma la stessa aderenza alla realtà di una réclame iperrealista.
In fondo giriamo a sinistra e facciamo le scale fino in cima al ballatoio aggettante su uno stanzone quadrato. Il giorno della visita in ospedale (Henri Geoffroy, 1889) ci dà la certezza: il bianco candido dei panneggi ospedalieri suggerisce culture di virus e batteri quanto le calcinate tombe marmoree gli impertinenti inserti vegetali. Non c’e scampo, la nostra richiesta di salvezza per il fanciullo dal viso cadaverico è goffa come la posa del contadino visitatore, come le parole secche, slegate, assenti per eventi, la malattia e la morte, da millenni a lui familiari tranne che per le bianchissime lenzuola.
Tornando indietro sul braccio destro del ballatoio finalmente possiamo dire addio alla pietà ruffiana, alla fiction di successo in prima serata, alle persone e alla loro fine, ed entriamo in una avventura senza retorica, improvvisata, fatta di geometria e di rapporti onesti tra linee e colori, come quella di una sessione jazz. In A letto (1891) di Édouard Vuillard il bianco è in poche linee esilissime, giusto per ritmare le variazioni sul grigio.
Poco dopo, scendendo nello stanzone sovrastato dal ballatoio, il bianco capitola definitivamente a favore del colore, la natura a favore dell’invenzione. Ed è il caos.
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