Cespugli di mirto sventrati ad arco e puntellati con materiali di fortuna a mo’ di portale verso le meraviglie; una canadese diligentemente montata sotto le rampicanti aggrappate alle Mure Aureliane; precarie trame di stracci, plastica e lamiere lungo gli argini dell’Aniene; grovigli di materassi e coperte lerce all’ombra di Porta Maggiore. E ancora baracche di lamiere e stracci sotto cavalcavia e ponti, campi rom come il famigerato Casilino 900, fabbriche dismesse come la Fiorucci in via Casilina, ex stazioni di filobus come quella di via Lucio Sestio.
Le persone ai margini, coloro che il sistema non riesce a mettere in groppa, utilizzano i confini, le barriere urbane createsi spontaneamente per costruirsi una casa: sacche impenetrabili di paura fiabesca sempre esistite nelle metropoli, come le zone con vegetazione trascurata, e gli argini dei corsi d’acqua; non luoghi come gli anfratti delle infrastrutture viarie; parchi ed aree archeologiche poco sorvegliate, off limits ai più; casermoni industriali dismessi.
Tutto questo è l’oggetto di Un Posto dove Stare, mostra di Alessandro Imbriaco, fino al primo maggio 2019 presso il Casale di Santa Maria Nova nel Parco Archeologico dell’Appia Antica, una raccolta di circa settanta fotografie scattate a Roma tra il 2007 e il 2011, che documentano drammaticamente certo, ma, a dire il vero, specie nelle foto senza presenze umane, con uno sguardo non molto differente da quello del passante.
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