Il Foro Romano e il Palatino, dopo la riapertura dello stadio di Domiziano, e in attesa un terzo accesso all’area, oltre al loro immenso e mai esaurito contenuto archeologico, si caricano della responsabilità di dare una senso all’arte italiana contemporanea. Post-classici (ripresa dell’antico nell’arte contemporanea italiana), include, disseminati tra Tempio di Romolo, Tempio di Venere e Roma, Vigna Barberini, Stadio Palatino, Criptoportico neroniano e Museo Palatino, post-classici ormai classici come Kounellis, Pistoletto, Paolini e Paladino, fotografi come Jodice e Biasiucci, artisti ancora senza collocazione quali Parmiggiani, Longobardi, Albanese, Beecroft, e poi Aquilanti, Colin, e i giovani ZimmerFrei, Alis/Filliol e Barocco; tutti, per quanto isolati e senza catalogo, accomunati dal guardare, forse costretti, al territorio di rovine simbolico e materiale dell’arte classica (greco-latina) e del nostro paesaggio archeologico.
Più volte è capitato ai loro colleghi dei secoli precedenti di rifarsi a quei valori, ma anche al paesaggio di rovine come modello estetico di riferimento. Umanesimo-Rinascimento, Classicismo ne sono la dimostrazione meno controversa. Quello è il riferimento a cui pare ciclicamente si ritorni quando si smarrisce la bussola. Sembra che l’Occidente si conceda il lusso di perdersi quasi pregustando la possibilità di ritornare a casa propria.
In questa presunto movimento postclassico, e ce lo mostrava già la Venere in mezzo agli stracci di Pistoletto ormai del 1967, ovviamente non un recupero rigenerante di valori e ideali, non un agire artistico che influenza la cultura e la vita e che ne è a sua volta influenzato, ma una presa d’atto impotente di avere davanti rovine e di non poter far altro che guardarle. Per noi, immersi tutto il giorno in un ottimistico, scintillante parco divertimenti, pur sempre un aiuto, senza alcuna ironia, il più appropiato.
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