Cupo terrore e angoscia; e malattia febbre prostrazione, spente infine da un sonno estenuante. In queste il mio destino, e nel nome che il venerato padre Cesare mi ha concesso quando ha posato i suoi occhi su di me. Egli ha tessuto così la rete, costringendo tutti in un circolo fatale, amici e nemici, assassini e vendicatori; un bocciolo di nebbia dove, annidato, ho potuto non soccombere. E tutti nel tempo si sono immolati per me perché la mia paralisi, il mio terrore, la mia fragile esistenza richiedevano il sacrificio di tutti. A Modena la paura cieca mi spinse nel campo già violentato di Antonio per uccidere il console Irzio, mio stesso alleato; insieme a Pansa, già ferito mortalmente nelle paludi, vivo e vittorioso si ergeva quale ostacolo alla mia ascesa. Valore e coraggio di amici e alleati hanno sempre trovato un sacro limite nel mio destino. A Filippi, Antonio, dopo astuti e lunghi preparativi, sferzava le milizie di Cassio e ne conquistava le posizioni; ma io, a presidio del nostro campo comune, udito appena il grido di battaglia dei soldati di Bruto sul punto di travolgere le mie legioni, riuscendo a vedere solo l’aria che respiravo, da solo sono fuggito nella palude; narici ostruite di acqua putrida e viso offeso dal canneto, ho rivisto il mondo solo tra le schiere vittoriose del mio collega, al sicuro. La distruzione dei cesaricidi fu una compiuta opera di Antonio, unico suo vero compagno ed erede nell’arte militare.
Lucio, fratello di Antonio, vittima dell’odio per la mia persona, non comprese quali dubbi la sua figura suscitava in chi avrebbe potuto essergli decisivo contro di me. Si asserragliò a Perugia convinto di poter resistere al mio assedio, fiducioso nell’aiuto dell’illustre parente e delle spregevoli trame ordite da Fulvia, sua cognata. Ma lontano Antonio coltivava sogni di dominio in oriente e lasciava senza ordini i suoi generali in Italia. Planco, Ventidio, e Asinio con le loro legioni, lenti e incerti, quasi mi indussero ad sbarrare loro il passo e non arrivarono mai a rompere l’assedio. Lucio e i suoi, sfiniti dalla fame, dopo aver conteso alle bestie fino all’ultimo stelo d’erba sulle mura di Perugia, si arresero lasciando all’olocausto la città che li aveva accolti.
Il mare mi è stato tanto ostile quanto a Pompeo propizio contro Roma e il mio partito. Credo che Pompeo e il mare condividano la stessa natura infida. I patti con lui si sono sciolsero uno ad uno: con la stessa rapida sorpresa la bonaccia si trasforma in tempesta. I miei goffi tentativi di stanarlo mi sono costati due naufragi e rischi letali durante quei ridicoli istanti di imperizia che la fatica e disagi lontano da Roma mi dispensavano. Agrippa, amato compagno, mi tolse d’impaccio nella acque tra Milazzo e Nauloco. Delle 300 navi di Sestio solo 17 riuscirano a sfuggirgli, nonostante, anzi grazie al sopore inquieto che mi aveva colto prima della battaglia.
Agrippa ancora, e la follia di Antonio ormai perso ad inseguire la regina d’Egitto, già decisa ad abbandonarlo prima della battaglia, mi diedero Azio. La vendetta di una donna non è mai commisurata al torto che l’ha provocata. Ma forse Antonio si era reso cieco perchè stanco di vivere con il suo sogno, esausto di sporcizia e marce, di sangue e di arti strappati, di strategie e parole doppie. Antonio moriva perchè ardeva di rinascere nel cerchio di due braccia. Io al contrario non avevo luoghi in cui tornare, calori e carni in cui affondare, ideali da realizzare. Io non volevo nulla perché avevo già tutto, me stesso.
Appiano Alessandrino De bellis civilibus; Svetonio De vita Caesarum, Augustus
Ultimi giorni per la mostra su Augusto alle Scuderie del Quirinale http://www.scuderiequirinale.it/categorie/mostra-augusto-roma
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