Swing & New Deal è il tema che quest’anno l’Auditorium Parco della Musica propone per il Roma Jazz Festival, con una serie di concerti, film e conferenze dal 18 al 30 novembre (http://www.auditorium.com/eventi/festival/5767382/1415919600). Tradotto, si vorrebbe il Swing essere un’evoluzione del jazz arrangiata alla voglia di divertirsi e di ballare degli americani debilitati dal crack del ’29; di conseguenza esso sarebbe riciclabile, in forma rinnovata, nel nostro tempo ferito altrettanto dalla crisi economica e dalla sfiducia nel futuro. Ma questo significherebbe attribuire alla musica degli anni trenta una zavorra di artificio retorico, inteso non come necessario bagaglio tecnico di linguaggio musicale, ma proprio come strumento di distrazione e occultamento, quindi consolatorio e anestetico. Invece sembra che una delle caratteristiche essenziali del jazz, anzi forse la sua maggiore conquista soprattutto a cominciare dal dopoguerra, sia proprio quella di essere una musica generalmente priva di retorica e di ogni stratagemma diversivo, compreso quelli che operano per sottrazione, dimenticanza. Il che non vuol dire che il jazz abbia smesso di suscitare emozioni ma solamente che in generale non si sia più apparecchiato a manipolarle. Ecco, sarebbe preferibile le cose rimanessero così. Hanno risposto all’appello il trombettista Fabrizio Bosso che con con il suo quartetto e l’Ensemble di Paolo Silvestri faranno rivivere le grandi orchestre di Duke Ellington; ancora, tra gli altri, Enrico Rava con il suo complesso, il duo di eccezionali pianisti Jason Moran & Robert Glasper, Franco D’Andrea in un trio insolito con clarinetto e trombone e il chitarrista gitano Biréli Lagrène, una dei maggiori eredi del jazz manouche di Django Reinhardt.
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