Steve Jobs a teatro ci può stare. Naturalmente a patto di uscirne con un ritratto dal sapore diametralmente opposto rispetto alla perenne scrittura agiografia che su di lui hanno prodotto in questi anni i media, corroborata, se ce n’era bisogno, dalla sua morte. L’uomo che da un garage ha portato la tecnologia a tutti gli esseri umani rendendoli più sapienti, connessi e liberi passa sotto il torchio del contestatissimo monologo di Mike Daisey. La grande contraddizione che accomuna la Apple a tutte le produzioni industriali globalizzate fa stridere di un suono insopportabile il sogno di felicità e redenzione tecnologica degli occidentali con lo sfruttamento inumano dei lavoratori del mondo in via di sviluppo, di quelli cinesi nel caso della Mela. Il testo, rimaneggiato e depurato da inesattezze ed esagerazioni, ammesse dallo stesso autore, viene portato sul palcoscenico del teatro Vascello dall’ottimo Fulvio Falzarano, nella traduzione adattata di Enrico Luttmann, con la regia di Giampiero Solari, prodotto dal Teatro Stabile del Friuli. Daisey è andato personalmente nelle fabbriche fortezza di Shenzen a parlare con gli operai. Dopo essere stato accusato in America di avere esagerato alcuni aspetti, come il numero di lavoratori minorenni impiegati o le guardie con la pistola nei reparti, ha continuato a promuovere il suo lavoro ripulito delle parti contestate; nonostante tutto il testo continua ad essere un limpido atto di accusa. Tormento ed estasi di Steve Jobs
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