Incombe Vermeer alle Scuderie del Quirinale (prima volta a Roma, 27 settembre 2012 – 20 gennaio 2013). Tre curatori di fama internazionale per ricomporre la diaspora dei suoi dipinti, (parte della cinquantina che costituiscono l’intero corpus delle attribuite) e quelli dei suoi contemporanei (altri cinquanta) per certificare le influenze: Tra gli altri, Gerard ter Borch, pittore giramondo formatosi con Rembrandt dai soggetti e dalle atmosfere affini a quelli di Vermeer, che compare con lui a firmare un atto il 22 aprile 1653 davanti al notaio de Langue; Il paesaggista e pittore di architetture Carel Fabritius, ferito a morte e deceduto nell’esplosione della polveriera di Delft nel 1654; Pieter de Hooch fine prospettivista di cortili e interni sicuramente in contatto con il Nostro; e ancora il gestore di birreria Jan Steen, Gerrit Dou, Nicolaes Maes, Gabriël Metsu, tutti abili giocolieri della luce e narratori della vita operosa e domestica della florida borghesia olandese del XVII secolo.
Incombe, dicevamo, e incombere è un verbo sbagliato per questo pittore (Delft, 1632-1675) scoperto interamente solo nel ‘900, il cui nome si confonde con quello di tanti van der Mer suoi contemporanei, con molte incertezze sulle attribuzioni, e della cui vita personale non si sa nulla, almeno rispetto a quanto ci è pervenuto dell’universo cittadino e familiare che lo circondava. La sua presenza e il suo pensiero ci giungono silenziosi quanto le stanze, le figure, i quadri, i tappetti, i mobili che, maniacalmente occupano i suoi dipinti.
Una stanza, l’angolo vicino alla finestra inondato di luce, un quadro appeso e uno scenografico ricco tessuto poggiato sul tavolo; un giovane donna che legge o scrive una lettera, che suona, che si prova una collana davanti allo specchio; una domestica delicatamente affaccendata o che cuce; una ragazza dolcemente corteggiata da un uomo elegante; la dama e la sua fantesca: luce e prospettiva concentrati. Dietro la scena qualcosa d’altro, un istante, un particolare che non mi spiego.
Ne sa senz’altro lei, signora Thins, che è rimasta colpita da quell’uomo taciturno e assente, fino a dargli in sposa me, una delle sue due figlie, senza nulla obiettare, fino ad accoglierlo in casa sua insieme a me, ormai per lei del tutto accessoria, e ai miei undici figli, senza mancare di mettergli a disposizione un spaziosissima camera come atelier. Avrà di lui di certo capito molto se non ha esitato a dilapidare fortune per sovvenzionarlo e a farne amministratore di sue nuove eredità. E di certo alla sua morte quella scintilla dietro la scena è per lei venuta meno se non ha esitato a sottrarre quadri e proprietà a me e ai miei creditori con la scusa di riprendersi tutto quello che, in una sorta di stato stuporoso, aveva dato negli anni alla sua sovrabbondante famiglia perchè non sprofondasse nella miseria.
Oppure potrebbe parlarmene lei signor van Buyten, che ha avuto la facoltà di cuocere e vendere il pane agli operosi liberi cittadini di Delft e di questo si è arricchito; il pane l’ha dato anche al signor Vermeer per sfamare la sua famiglia numerosa, anche quando questi, senza più soldi, l’ha preso a credito per ben due anni contraendo con lei un debito di 617 fiorini. Qualcosa di lui l’ha toccata se ha accettato da me in garanzia a copertura di quello stesso debito, dopo la sua morte, due suoi quadri (La donna che scrive una lettera in presenza della domestica, la suonatrice di chitarra). D’altronde anni prima, mentre era in vita, gli ha comprato per lo sproposito di 600 livres un dipinto con un unica, misera figura.
Ha capito tutto lei, signor van Leeuwenhoeck, ne sono sicura, lei, un uomo di scienza che pretende di costruire lenti miracolose per vedere ciò che non si vede e che probabilmente Dio non ha voluto che noi vedessimo. A suo danno eterno lo pretende, ma io, per ciò che mi preme, confido lo stesso nella sua ferma volontà di vedere e di capire di più e oltre quello che noi capiamo e vediamo. A pensarla meglio però, per comprendere qualcosa di sè stesso si è fatto ritrarre dal pittore Vermeer nelle false spoglie di geografo e astronomo e questo mi fa pensare, almeno in quel caso, che lei sperasse le potesse essere rivelato tutto ciò che nemmeno il suoi microscopi le potevano mettere davanti agli occhi. Ricordo, lei diede a lui consigli sulla camera oscura e su come utilizzarla per ridurre le cose a piccole, fedeli immagini di luce da poter così meglio dominare. Jan ha accettato e applicato tutti i suoi consigli, ma poi – lei lo ha intuito – in un moto contrario, ritraendola, ha voluto suggerirle potesse esserci qualcosaltro oltre il dominio su tutto quanto riusciamo con ogni mezzo a vedere.
Io osservo la vita qui a Delft, le servette al mercato, le locande piene, i bambini giocare sulle sponde dei canali, le signore eleganti la domenica nella Chiesa Nuova, e mi pare che tutti i giorni siano stati così e saranno così per sempre.
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