Qui si finge che lo scrittore Juan Rodolfo Wilcock inquilino di una casa a via Demetriade negli anni settanta, abbia conosciuto Elvino e Mario, due pervertiti assassini, residenti sulla medesima strada e protagonisti della cronaca nera negli anni novanta. Costoro, oltre ad aver condiviso con il poeta la stessa periferia, sembra quasi abbiano sperimentato la deforme ferocia di alcuni dei suoi sogni.
Poco distante dal mio villino gli acquedotti Claudio e Marcio si incrociano scavallando la via Tuscolana e, complice l’innesto monumentale dell’acquedotto Felice, si fingono portale d’ingresso a Roma, la così detta Porta Furba. Sulla medesima via Demetriade che da qui dirama verso l’Appia Nuova, al numero 10 abita il rigattiere Elvino insieme a suo figlio Mario.
Elvino, un uomo intorno ai settanta, è tarchiato ed ha un aspetto precario: la pelle, comunque liscia e rosea, gli pende a sacchetto dagli occhi, e cola come l’olio dalle guance, dal mento e dal collo. Mario, che non giurerei sia figlio naturale, pur tuttavia è sua replica perfetta. Una copia solo più agghiacciante; il sovrappiù di profilo corrotto e portamento sfatto che li distingue entrambi, se grosso modo adeguato all’età del genitore, risulta orrido in un giovane dallo sguardo infantile. L’ex-baracca, riadattata in blocchi di tufo e divisa in due corpi, l’uno di poco più alto dell’altro, oltre a far loro da riparo segna il confine tra la strada e un ampio cortile, per il resto recintato alla buona da lamiere ondulate. Nel cortile vagano, ognuno alla propria velocità, galline, oche e conigli, esistenze guizzanti, inconsapevoli navicelle di angoscia sempre sul punto di sparire. Poi un pozzo vicino a una magnolia spoglia e malaticcia.
Intorno cumuli di stracci, cartoni umidi, giornali, mobilio rotto, arredi sconnessi e immondizia, il tutto disposto a formare argini di sentieri obbligati e angusti, corridoi appena sufficienti al passaggio di una sola persona, disegnati a labirinto da traiettorie casuali e reiterate tra un punto e l’altro del giardino, e tra questi e gli ingressi ai fabbricati.
Un groviglio mai assestato in cui una geometria sommaria ha distinto gli oggetti orizzontali usati da base – blocchi di tufo di risulta, trabeazioni e architravi trafugate da tombe antiche, brande a rete o a doghe, tavolini barcollanti, console con lo specchio eroso, trabattelli da cantiere, divani sventrati e materassi zuppi; poi gli elementi moderatamente verticali da impostare sui primi – pensili da cucina, porte e cancelli divelti, televisori a valvola, poltroncine impero, water incrostati di lerciume, bidèe sezionati, tigri con denti a sciabola di gesso, i medesimi blocchi di tufo posati sul lato più corto; infine, in cima, i rifiuti senza errore giudicati avere virtù verticale – uominimorti e attaccapanni di betulla o di noce, imitazioni marmoree di colonne corinzie, portaombrelli di alluminio, angeli da giardino, abajour, candelabri, collettori da evacuazione in piombo da 11.
Come è prevedibile, tra i cunicoli, le insenature e gli absidi di questa architettura astratta prospera, ancora più astratta, una vegetazione schiumosa di colore verde grigio violaceo, libidine viva di ogni vuoto, senza sosta animata da guizzi, un brusio di rumorini più che saltelli e sgattàioli visibili: bisce dalla testa triangolo, zanzare di Corbyn, blatte con esoscheletro cangiante, e soprattutto enormi ratti baffuti vi conducono una vita non priva di soddisfazioni.
Il vegliardo esce al mattino per condurre le sue ispezioni nei cassonetti e nelle discariche abusive tra Appia e Tuscolana, in mezzo i prati di Tor Fiscale, fino all’Appia Pignatelli e oltre.
Alla fine il bottino al traino può essere magro o soddisfacente, mai nullo o abbondante. Si badi, è questione di procurarsi reddito, ma anche di piccoli atti di metafisica sopravvivenza. Mi spiego. Muratori idraulici elettricisti ristrutturano gli appartamenti, i condomini svuotano le cantine. Poi “conferiscono” – il termine burocratico tende ad attenuare il vandalismo del gesto – quello che non serve più o che occupa spazio inutilmente. Disfarsi di qualcosa è una decisione sofferta, molte volte è l’esito di uno sfinimento interiore, mai comunque una leggerezza. Una volta presa, la decisione è senza appello, non si può tornare indietro; l’oggetto a quel punto è privo dello spirito, l’animella, il soffio debolissimo di coloro che lo hanno utilizzato e custodito a lungo.Elvino rivolta a fatica con il bastone, esamina, si figura l’eventuale acquirente e valuta quanto potrebbe ricavare; ausculta, diciamo, il fossile di quell’animella, l’impronta da essa lasciata tra patine untuose, parti mancanti e stoffe lacere, perché egli sa proprio quella essere per i suoi clienti il movente decisivo all’acquisto. La poltroncina damascata senza una gamba, la carcassa arrugginita di una caldaia, la radio smanopolata hanno già dato prova di sé a qualcuno, e Elvino ha intuito quanto questo seduca le persone, ebbre di assaporare la propria vita eterna attraverso la metempsicosi dei manufatti.
L’ha intuito ma non l’ha mai compreso. Per lui la discarica è la sfera chiusa e protetta, dove il desiderio può trovare soddisfazione facendo a meno di sfiorare il suo oggetto, anzi il desiderio è questa mancanza. Non è la felicità della iena che, trovata la gazzella cadavere, si appresta a pasteggiare senza la fatica di inseguire il cibo. Piuttosto è il guardare necrofilo senza essere guardati, il convegno amoroso senza l’amato, lo sfogo a senso unico su qualcosa cui non si può resistere ma che non può e non deve interrogare. Il rottame insomma è per lui l’altro in assenza dell’altro.
Trascinandosi Elvino torna al tugurio. Appena dentro al recinto separa quanto potrebbe presto avere un compratore da ciò che giudica meno facilmente commerciabile. Adagia in cortile i pezzi reietti sui cumuli già alti saggiando il loro equilibrio e porta in casa quelli pregiati. Qui pulisce, raddrizza, accomoda l’accomodabile. Si accascia infine sulla piccola porzione di divano-letto libera da ciarpame e afferra la bottiglia di brandy sepolta il giorno prima, tra riviste pornografiche e biancheria sporca. Comincia a bere con la preparazione del pranzo all’orizzonte. Mario in quell’istante vaga tra le gallerie della vicina fungaia dove lavora con Ryszard, un omone polacco dai capelli biondo-spento. Tra breve tornerà.
Elvino ha le palpebre pesanti e incomincia a sognare melodie strazianti sentite da bambino, come da una radio lontana, e questi suoni lo avvolgono in un abbraccio di mamma. Quieto, egli s’accresce, dilaga per l’intero universo. Aspetta così che qualche ragazzino del quartiere, in cerca di un po’ di soldi, lo chiami dalla strada con uno strillo.
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