Sono giunto qui dalla periferia del mondo. In periferia ho desiderato vivere da sempre. Abito in affitto al civico 54 di via Demetriade, in un modesto villino con intorno un piccolo pezzo di terra, ultima evoluzione di un capanno rurale abusivo che, come molti altri da queste parti, fu arrangiato dal contadino reietto quando la città non aveva ancora violato questi margini imperiali (Roma è l’unica metropoli al mondo dove la periferia dei diseredati si sovrappone ai ruderi di un impero scomparso).
Nato da padre inglese e madre di origini italo-svizzere, in Argentina ero ingegnere per le ferrovie: vi assicuro, solamente per campare. Per quanto io ricordi ho sempre letto e scritto poesia, e mi sono dedicato a brevi racconti e alla critica teatrale, entrambi di pura fantasia; diciamo, ho vagato con un piccolo peschereccio per l’oceano della Letteratura, l’unica letteratura possibile, quella del Vecchio Mondo. In Argentina ho conosciuto e seguito con venerazione Silvina Ocampo, Adolfo Bioy Casares e Jorge Luis Borges, europei quanto Flaubert, Joice, Kafka. In ossequio alla letteratura, oltre che a causa di ridicole intemperanze nei confronti dei potenti, sono tornato alla sorgente Europa, e ho stabilito la mia residenza in Italia, la sua polla più antica.
Ho scritto in spagnolo e poi, per scelta, in italiano, ma parlo leggo e traduco in inglese, francese e tedesco. Ho scritto in spagnolo da giovane, quando riposavo sul cuscino ingannevole della speranza. L’italiano è la lingua del mio risveglio, quindi della finzione, l’idioma che abito come una fredda cella, perfetta per la mia indole astiosa. Nel Paese che si divide in Liceo Classico e Liceo Scientifico, io che so qualcosa di matematica e fisica, che ho tradotto Finnegans Wake e il Dizionario dei luoghi comuni, che leggo i grandi romanzieri francesi in lingua, risulto indecifrabile ai più; su molti intellettuali ho esercitato una specie di fascinazione, direi la stessa che emana da un frutto esotico.
Mi è capitato allora di conoscere Nicola Chiaromonte, Elsa Morante, Alberto Moravia, Ennio Flaiano, Elémire Zolla, Roberto Calasso, Ginevra Bompiani e Luciano Foà e di scrivere su La Nazione, L’Espresso, La Voce Repubblicana, Il Messaggero, Il Tempo, e su qualsiasi altro foglio di carta dove le mie parole fossero retribuite. Pasolini, forse per il viso ossuto e la postura severa, mi ha voluto come Caifa nel suo Vangelo secondo Matteo.
Indifferente a tutto, ho concluso di essere interessato solo all’illusione. Scrivo perché amo sorprendere la gente nei momenti di cecità volontaria, osservare le persone durante lunghe pause di abbandono, gli intervalli sguarniti in cui decidono di credere al miraggio e, specchiandosi nelle mie fantasie acide e putrescenti, abbandonarsi a fingere di essere essi stessi parte in un disegno sensato, un susseguirsi di vicende che abbiano direzione e fine.
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